Il nostro dialetto non ha, oggi, quel riconoscimento di lingua autonoma che attribuiamo, ad esempio, al napoletano, al romanesco, al siciliano, al calabrese e a tante altre lingue non lingue del nostro paese.
Eppure tale dignità gli venne riconosciuta da Dante Alighieri che, nel primo libro del “De vulgari eloquentia”, lo censì tra le lingue volgari esistenti in Italia (la lingua dei Siciliani, degli Apuli, dei Romani, quello dei Romani, degli abitanti di Spoleto, dei Toscani, dei Genovesi, dei Sardi, dei Calabri, degli Anconitani, dei Romagnoli, Lombardi, quello dei Lombardi, dei Veneziani, dei Trevigiani, della gente di Aquileia, e degli Istriani..)
Eppure il nostro parlare, nel suo cacofonico suono gutturale, contiene tali e tanti latinismi da avere un interesse etimologico e culturale. A prima battuta sembra poco diverso dall’italiano, in realtà non è possibile comprendere chi parla uno “spoletino stretto”, se non si è spoletini.
Ovviamente si va perdendo con le nuove generazioni, per cui meritoria è l’opera di Lamberto Gentili e Giampiero Cuzzini Neri che lo hanno studiato e catalogato. Il “Grande vocabolario del dialetto spoletino” consta di più di mille pagine. Basti questo dato a comprendere la varietà dei lemmi che solo noi possediamo (alcuni di noi).